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Ecologia profonda e decrescita

“L’illimitata crescita economica convenzionale (cioè la crescita del prodotto interno lordo, PIL) non solo è impossibile ma è anche indesiderabile. Il PIL misura il reddito economico e non il benessere. Ciò che veramente occorre è riuscire a creare benessere con meno attività economica” (R. Costanza – J. Farley – I. Kubiszewski, in State of the world 2010, Ed. Ambiente).
“Un altro mondo non solo è possibile, ma sta già arrivando. Nelle giornate tranquille, lo sento respirare” (Arundhati Roy, Forum sociale mondiale, 2003)

L’ecologia profonda (o ecosofia) è un movimento filosofico e di pensiero, una visione del mondo a sfondo panteista che richiede un profondo rispetto per tutti gli esseri senzienti (e quindi anche gli ecosistemi) e per tutte le relazioni che li collegano fra loro e al mondo cosiddetto “inanimato”. Non assegna alla nostra specie un valore distaccato e particolare, ma la considera completamente parte della Natura. Vede la Terra come l’Organismo cui apparteniamo.
Il fondatore del movimento in Occidente è stato il filosofo norvegese Arne Naess, che usò il termine per la prima volta in un articolo del 1972 (The shallow and the deep).
Sono caratteristiche dell’ecologia profonda:
- Una visione sistemica del mondo, una filosofia non-dualista, il riconoscimento della sacralità della Terra e del diritto ad una vita degna per ogni essere senziente;
- La necessità di non spezzettare l’universale, di considerare l’aspetto sistemico globale e di evitare di cadere nei dualismi tipo mente-materia, Dio-il mondo, uomo natura e simili;
- L’idea che l’intero è più della somma delle sue parti. In una visione olistica si pone l’accento più sulle relazioni che sui singoli componenti.
L’ecologia è il sentimento profondo che ci dice che tutto è collegato, che non possiamo danneggiare una parte senza danneggiare il tutto, che facciamo parte di un unico Organismo (l’ecosistema, o la Terra) insieme a tutti gli altri esseri viventi senzienti: il primo valore è il benessere dell’ecosistema, da cui consegue anche quello dei componenti, e quindi il nostro.
Invece l’ecologia come è intesa dal pensiero generale, detta anche ecologia di superficie, resta completamente antropocentrica e quindi non modifica il sottofondo di pensiero della cultura occidentale: richiede soltanto di diminuire il più possibile gli inquinamenti e salvare alcune aree intatte per il beneficio dell’uomo. Considera la Terra come la casa dell’uomo: in sostanza, tutto può andare avanti come prima, con qualche accorgimento tecnico e qualche depuratore.
Invece le prospettive proposte dall’ecologia profonda sono un completo mutamento di paradigma, che porti:
- al sentire consapevolmente la rete che collega qualunque essere o evento;
- all’estinzione del desiderio per i beni materiali;
- all’amore compassionevole verso tutti gli esseri senzienti.
Per far questo è necessario:
- diffondere le basi del nuovo paradigma e mettere in discussione tante idee considerate “evidenti” solo perché respirate fin dalla nascita (competizione, successo, desiderio continuo dei beni materiali, posizione della nostra specie come staccata dalla Natura);
- parlare spesso con grande considerazione e rispetto degli altri esseri senzienti e della sacralità della Terra;
- evidenziare che l’idea fissa dello sviluppo non è “propria della natura umana”, ma è nata in una cultura in un determinato momento della sua storia.
 Questo punto la collega al Movimento della Decrescita felice.

Il termine decrescita, nel senso che gli viene attribuito oggi a partire soprattutto dagli studi di S. Latouche, compare all’inizio degli anni ’70, ma è rimasto a lungo emarginato. In questi decenni gli si è preferito il termine “sviluppo sostenibile”, che invece ha avuto un’accoglienza pressoché universale. Nell’immaginario sviluppista dei più, la decrescita è percepita come una terribile minaccia, che incombe sulla società della crescita, magari a causa di piccole minoranze di esaltati, nemici del progresso e della tecnologia, che come tali vorrebbero riportare indietro la Storia.
Negli ultimi anni, sono aumentate di molto le riserve nei confronti della crescita: il fatto è testimoniato dal proliferare di ottimi studi scientifici in proposito, i quali fanno notare che la crescita sembra aver esaurito le sue chances, generando una crisi che non è solo economica, ma sistemica. Negli ultimi secoli, siamo passati da un “mondo vuoto” ad un “mondo pieno”, come suggeriscono alcuni scienziati (Robert Costanza, Herman Daly…): con questa indovinata espressione si vuole rappresentare da una parte il mondo preindustriale (scarsi gli insediamenti umani e la pressione demografica, modesto lo spazio occupato dalla tecnologia, istituzioni meno complesse…); dall’altra il mondo dopo la rivoluzione industriale: un mutamento vertiginoso, ben riscontrabile ai nostri giorni (6 miliardi e ½ di umani, insediamenti diffusi, megalopoli, cementificazione, la natura calpestata dal mondo artificiale della tecnica, istituzioni di una complessità ingestibile…). In questo nuovo contesto, sono ancora appetibili le ideologie sviluppiste della crescita, sorte nel “mondo vuoto
Il “pensiero unico” sviluppista è ormai un modo di pensare antiquato e pericoloso.
In un mondo che sta per scoppiare perché “troppo pieno”, continuiamo ad utilizzare una vecchia “bussola culturale”, che è stata elaborata secoli addietro, quando il mondo non era così pieno. Questa “bussola” è costituita di parole d’ordine interconnesse che hanno fatto la modernità ed il nostro presente, come: sviluppo delle forze produttive, crescita economica illimitata, consumismo ad oltranza, etica antropocentrica e razionalistica capace di legittimare il nostro dominio sulla natura.
La crescita, nel “mondo pieno”, fa male…
Le idee-forza della modernità, sopra citate, hanno comunque fatto il loro tempo: continuare a seguirle oggi, anche solo per inerzia, ha il sapore dell’irresponsabilità. Possiamo incrementare ulteriormente la produzione, ma questi incrementi costano, in termini di risorse e benessere, più del valore dei beni prodotti. L’ulteriore crescita del PIL non fa aumentare il benessere, ma lo blocca o lo riduce. Nei paesi più sviluppati, ormai la crescita è diventata complessivamente antieconomica o ha comunque raggiunto la soglia di criticità.

Fonte: www.biochiave.it

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