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Il giorno che comprai un pezzo di terra

suryanamaskara 0

Il giorno che comprai un pezzo di terra

Il giorno che comprai un pezzo di terra non lo dimenticherò mai finché vivo.

Mancava una manciata di settimane alla fine dell’anno, era un mercoledì nuvoloso, aveva piovuto per giorni, il cielo era nero e rosa verso ovest, un cielo che abbagliava gli occhi e nascondeva le insidie.

Quando uscii dallo studio del notaio vedevo davanti a me un tunnel, in fondo al quale una luce mi tirava irresistibilmente. Mi misi automaticamente al volante e mi ritrovai subito dopo in campagna, a quasi 12 km da casa.

La luce del crepuscolo urlava tra le nubi compatte. Percorsi il fondo passo dopo passo, senza fretta, annusando l’erba ancora bagnata che mi frustava i jeans, respirando l’odore della terra che mi faceva dimenticare chi ero: avevo le lacrime agli occhi. Mi misi a rotolare per terra e fare capriole come un bambino; chiamavo le erbe selvatiche col loro nome e cognome e le salutai decantando brevemente le loro virtù e ringraziandole della loro presenza.

Alla fine, ebbro di una gioia sconosciuta, mi sedetti su di una pietra piatta sui bordi di un piccolo solco erosivo, che attraversava il fondo come un torrente di ciottoli e chianche, e piansi tutto il dolore, la sofferenza, le umiliazioni, le fatiche da schiavo, la derisione di amici e parenti, tutti gli ostacoli di cui avevo dovuto fare esperienza prima di giungere a quella sera magica priva di tempo, perfettamente centrato, in uno stato di coscienza mai sperimentato prima.

Lì, seduto su quella chianca pugliese, fui testimone dell’infinito, un punto di indescrivibile potenza che intravedevo tra la fine di un pensiero e l’inizio di quello successivo e che parve crescere fino ad opccupare tutto lo spazio della mia coscienza: rimasi solo io, il pensatore senza il pensato, tutto il resto sparito.

Quando mi svegliai era ormai notte fonda, alle ombre buie faceva da contrasto una esplosione di stelle. Mi sentivo come ubriaco, ma una nuova e sottile sensazione, una elettrizzante carica di gioia mista a distacco informava i miei gesti.

Raggiunsi la mia auto, salutandola con fare cameratesco, guidai fino a casa, con la mente totalmente vuota. Ero proprio cotto: nemmeno con l’LSD ero stato così fuori. Rimasi quasi un’ora in cucina a guardare una televisione spenta, e solo perché avevo sete mi alzai e andai nel cucinino. Nel buio della veranda di anticorodal, col rumore sommesso dei veicoli sulla circonvallazione, mi sentii come la prima volta che avevo fatto l’amore. Avevo sviluppato un nuovo e stimolante gusto per l’esistenza.

Si può neutralizzare il destino?

Si può azzerare la somma algebrica delle proprie azioni?
In questo meraviglioso luogo ed in questo bellissimo tempo, con queste mani screpolate, con queste mani di corteccia d’albero mi costruirò una casa, con queste braccia doloranti di casse di acqua minerale e sacchi di olive ricostruirò quel castello, quella cittadella del mio cuore segreto, di quel mio cuore nascosto che mai ha smesso di pompare vita.
E per quelle strade me ne vado, per quei sentieri se ne va il mio crudo cuore, per quelle vie che scelsi nella pace dei pomeriggi confusi della mia adolescenza, e che percorrerò in tutta la loro infinita lunghezza, guardando e guardando, senza fiato, mentre il mio spirito ride e ride.

No, non darò ascolto ad altra voce che non sia quella della mia più intima predilezione, non mi farò più trasportare come foglia al vento del giudizio degli altri, mai più scorderò di essere stato un bambino, non scorderò più che una volta ero saggio e lieto, che non avevo confini, che vivevo la mia leggenda personale.