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Le mitiche origini della medicina indiana

suryanamaskara 0


Un insegnamento è degno di fede se viene impartito da un maestro di cui tutti riconoscono la competenza e la virtù.
Quale guru sarà più affidabile della divinità stessa?
L’Ayurveda è un sapere divino, originariamente non destinato agli uomini.
Ma gli autori classici narrano come questo sapere sia trapelato dalla ristretta cerchia degli dei
e sia giunto fino al mondo umano.
E’ opinione diffusa in India che ciò che viene per primo sia più importante, perché contiene in nuce tutto ciò che si svilupperà in seguito.
Quindi la prima parola di un libro è la più importante, e così la sua prima strofa e il suo primo capitolo.

Traduzione italiana della Charakasamhita
Charaka Samhita, traduzione italiana - http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/medicina-naturale/articolo/lstp/432532/

La Charakasamhita (“Collezione di Charaka”, la principale fonte per la conoscednza degli aspetti speculativi della medicina ayurvedica) si apre descrivendo le origini mitiche della medicina: è un ardente desiderio di longevità che spinge un essere umano come l’asceta Bharadvaja ad avvicinarsi al dio Indra.
Bharadvaja è un asceta dal fortissimo tapas (il potere derivante dalle pratiche ascetiche) eppure questo tapas non è sufficiente a fargli ottenere la conoscenza dell’Ayurveda.
Il tapas ha un ambito limitato, serve a produrre un effetto preciso: per apprendere l’Ayurveda occorre invece un maestro.
Indra però non è il dio che possiede la conoscenza originaria della medicina: egli l’ha appresa dai divini gemelli Ashvin, i quali l’hanno ricevuta dal padre delle creature, Prajapati; questi, a sua volta, l’ha appresa da Brahma, che ne è il primo possessore.
Bharadvaja potrebbe dunque rivolgersi al primo anello della catena, e forse riceverebbe un insegnamento più integro, perché la sapienza è come il miele, ogni volta che viene travasata da un recipiente a un altro se ne perde qualche stilla.
Ma Bharadvaja preferisce chiedere l’aiuto di Indra perché questo dio, a differenza di Brahma, ha una vita molto breve: è dunque più vicino alla condizione umana, più mosso a compassione.
Inoltre Indra non ha ancora trasmesso la sua sapienza a un discepolo, e indubbiamente sarà ansioso di tramandare ciò che ha appreso: in un certo senso chi riceve un insegnamento non è libero di tenerlo per sé, o di sprecarlo, ma contrae verso i suoi maestri un debito che verrà estinto soltanto quando la dottrina sarà stata trasfusa in un altro individuo.
Il fatto che Indra non abbia ancora insegnato ciò che sa lo rende dunque preferibile come maestro agli altri dei, i quali hanno già operato la trasmissione.
La narrazione del mito prosegue quindi con un flashback, che rivela i nobili intenti di Bharadvaja: in realtà egli non vuole conoscere l’Ayurveda soltanto per trarne vantaggio, ma anche per riferirlo ai grandi veggenti, che lo avevano mandato in missione da Indra.
Incontrandosi sulle pendici dell’Himalaya, i più importanti rishi avevano tristemente constatato che le malattie impedivano ormai agli uomini di vivere serenamente e di compiere le loro pratiche religiose, e speravano che Bharadvaja riuscisse ad ottenere da Indra un rimedio.
L’asceta in realtà non apprende dal dio l’Ayurveda nella sua forma originale, ma in un breve riassunto di poche parole.
Grazie alla sua straordinaria intelligenza, egli coglie con una fulminea intuizione la smisurata dottrina ayurvedica e la applica a sé stesso: una vita lunga e felice è il naturale premio che Bharadvaja riceve, prima ancora di raccontare l’Ayurveda ai veggenti.
Di maestro in discepolo, l’insegnamento giungerà poi ad Atreya, e da lui ad Agnivesha, l’autore della Charakasamhita.
Anche nell’opera di Sushruta, la Sushrutasamhita (altro testo fondamentale, meno speculativo ma essenziale per la conoscenza della chirurgia indiana), un gruppo di veggenti si angustia per le malattie somatiche, psichiche e traumatiche che affliggono il genere umano, e chiede aiuto ad un personaggio autorevole: questa volta è il re di Benares, Divodasa Dhanvantari, dio egli stesso o, per l’esattezza, avatara (incarnazione sulla Terra) di Brahma.
Il re accetta volentieri che i saggi divengano suoi discepoli, e rivela loro che il dio Brahma aveva creato l’Ayurveda come appendice ai Veda ancor prima di generare tutte le creature.
Ma, vedendo che la breve vita umana non sarebbe stata sufficiente ad apprendere le centomila strofe in cui l’Ayurveda era stato concepito, il dio suddivise la materia in otto parti:

  • la chirurgia (shalya)
  • l’oftalmologia-otorinalaringoiatria (shalakya)
  • la medicina generale (kayacikitsa)
  • la demonologia o psichiatria (bhutavidya)
  • la pediatria (kaumarabhritya)
  • la tossicologia (agadatantra)
  • la sezione degli elixir e dei ricostituenti (rasayana)
  • la sezione degli afrodisiaci e dei trattamenti contro la sterilità (vajikarana)

Il re Dhanvantari, senza svelare per il momento come ha ricevuto l’ottuplice insegnamento, chiede ai discepoli quale parte dell’Ayurveda desiderino conoscere.
La risposta è un invito a privilegiare la chirurgia, “radice” (mula) di tutte le altre discipline.
Il re riconosce la mitica anteriorità e quindi la supremazia delle cure chirurgiche: furono prestate a dèi e antidèi, che si erano feriti combattendosi furiosamente, nonché a Yajna, il sacrificio personificato, la cui testa era stata tagliata da Rudra e poi riattaccata miracolosamente dagli Ashvin.
Da queste parole di Dhanvantari si rende immediatamente chiara l’intenzione di Sushruta: a differenza di Charaka, che pone al centro dei suoi interessi la medicina generale, egli vuole privilegiare nettamente la chirurgia.
Un brevissimo flashback dà conto anche qui dell’immancabile trasmissione del sapere medico da Brahma a Prajapati, agli Ashvin, a Indra e infine a Dhanvantari.
La trasmissione dell’insegnamento da una divinità all’altra è quindi uguale nei due trattati di Charaka e di Sushruta; le differenze hanno inizio a partire dal livello umano, anzi, più che umano, nel caso del re-dio Dhanvantari.
I tentativi di dimostrare la storicità dei personaggi che hanno raccolto la rivelazione divina si sono rivelati poco convincenti: le leggende che narrano la nascita dell’Ayurveda non sembrano avere fondamenti storici.
La diversa trasmissione da maestro a discepolo (guruparampara) esposta nell’Ashtangasamgraha ha un importante valore simbolico: l’obbiettivo è riunire la medicina generale alla chirurgia, dando però maggior risalto alla prima rispetto alla seconda.
Indra non può più dunque avere un solo discepolo privilegiato, cui offrire l’ambrosia dell’Ayurveda: i discepoli saranno numerosi, e fra loro vi saranno anche Atreya Punarvasu, per bocca del quale è esposta la Charakasamhita, il Dhanvantari della Sushrutasamhita, e persino Bharadvaja.
La particolare posizione di preminenza accordata alla medicina generale è segnalata in due modi: innanzitutto Atreya è posto a capo degli altri discepoli di Indra; in secondo luogo, nell’enumerazione delle otto parti della medicina viene menzionata per prima proprio la parte detta kaya, “[cura del] corpo”, mentre la chirurgia è soltanto quinta.

Da “La medicina indiana (Ayurveda)” Antonella Comba – Promolibri